Su Lucinele. Maria Concetta Barone
Note a margine di “U lucignele” di Ugo D’Ugo.
 
Ci sono luoghi della poesia dove non batte mai il sole, caratterizzati da un’espressività intensa e un altissimo livello di comunicazione.
E’ il caso della poesia dialettale, che subisce una esclusione ingiustificata sia editoriale che critica, dettata da una sorta di “fascismo antropologico”, come denunciava P.P. Pasolini.
Già il nostro Molise è ai margini, questa regione quasi finistèrrae, sinonimo di ovvietà, mediocrità, provincialismo, quello più moralistico e completamente privo di stimoli. E, nel momento in cui la poesia si identifica con il territorio, questa rischia di assumerne le caratteristiche come connotazioni negative.
Ma con il dialetto, seconda lingua madre, si può esprimere quello che in lingua ufficiale è più difficile comunicare, cioè quell’altrove linguistico che è in fondo la substantia  formale di metafore, linguaggi, suoni, odori, silenzi, colori, comportamenti, riti, luoghi, personaggi, di cui si sono perse inesorabilmente le tracce.
Ecco, dunque, la gradevolissima raccolta di poesie in lingua campobassana (forte, infatti, ne è la connotazione identitaria di appartenenza) di Ugo D’Ugo, ‘U lucignele.
Proprio perché trascrizione di oralità e perciò libera dai linguaggi abusati e massificati dei mass-media, questo testo si fa non luogo incorrotto che ci racconta di storie passate, di piccoli eroi di provincia, di luci e ombre di un borgo che sta scomparendo dalla memoria collettiva delle nostre comunità.
Così in Murtarielle il poeta ci accompagna fino a un’antica fontana a valle della ferrovia per Termoli, tra cipressi, rovi di biancospino e viottoli sepolti dal cemento, sepolti come la fontana, d’altra parte.
In La ficetra e la nenna, componimento d’impianto esopiano, delicato apologo ricco di fonemi che appartengono al registro della parabola arcaica, i personaggi sono immersi in un luogo dell’anima, una campagna verde e ridente, un Eden incontaminato e perduto. Ci accompagnano parole preziose (verzecheja, ‘ngiglia…), frutto di millenarie stratificazioni linguistiche, che custodiscono luoghi e tracce di civiltà contadine e artigiane per noi smarrite. La vita e i sentimenti umani, anche linguisticamente, si metamorfizzano in eventi naturali: qui l’uomo è ancora profondamente immerso nella natura.
O ancora nel bel componimento Dorme u viche, dentro il quale risuonano suggestioni sonore ormai perdute (ualejia, canta la nonnanonna, ‘ndrunculeia la cùnnela),  la vita di un borgo antico, un tempo pieno di presenze e che oggi ha perso il suo fascino originario, è narrata con tenera malinconia.
Una intenzione stilistica interessante della poesia in vernacolo si ispira al filone molto antico, mai cancellato nel nostro Dna,  della Commedia, di quella odé tés kòmes, che era il canto per le vie del villaggio.
Qui il mondo dei versi diventa un sistema chiuso e comprensibile solo a livelli localistici, cioè, per intenderci, nella fascia massima di isoglosse, oltre le quali il dialetto è lingua straniera.   Senonché  i vizi, i peccati, gli amori di cui si parla nei versi sono vizi, peccati, amori di una umanità che lavora, ama, si svaga, migra, nasce e muore nell’ambito di quell’immenso laboratorio culturale che è il Mediterraneo.
Dunque, accanto a una scrittura talvolta astratta fino alla sovrabbondanza retorica, trova il suo spazio una poesia vernacolare, che descrive la realtà con leggera ironia o semplicemente con quella comicità che si trasforma talvolta in ilarità spensierata.
Le armi del comico, allora, esorcizzano e sublimano il dolore, la sofferenza, gli stenti.
Tutto questo trova spazio in  La conta ‘e Serafine, dove la sorpresa è ai versi 11 e 12 o nel simpatico ricordo di Bellamaronna, (in Iesce sole, iesce), figura tipica campobassana, un po’ folletto, un po’ genio tutelare nella memoria collettiva, un tuttofare che sbrigava le commissioni a chi glielo chiedeva e gridava “iesce sole” o “votta a chiòvere” a seconda della mancia ricevuta; o ancora in La vutazione du sinneche,  in cui si muove un microcosmo provinciale, rappresentato nella sua ignoranza, nel suo opportunismo, con una crudezza che manifesta tutto il precario equilibrio tra dettaglio realistico e trasfigurazione poetica.  
Il merito della raccolta è nelle suggestioni linguistiche, in quelle  aree semantiche che connotano la vita della campagna e del borgo, come sopravvivenza dell’età dell’oro e di un mondo incontaminato e perduto, o che registrano con cura legami parentali, tradizioni, utensili, toponimi destinati altrimenti al silenzio e alla polvere del tempo.
Dunque, queste parole, interpretate nel loro intrinseco e più prezioso senso, cioè come oralità trascritta, rivestono una nuova funzione culturale di scavo di elementi arcaici e, come pietre viventi,  svestono il dialetto dei suoi attributi di minorità, per investirlo di una nuova funzione di cui è portatore, quella di intraprendere un dialogo tra il Molise, mondo apparentemente ristretto, ma portatore di bellezza e forte carica identitaria,  e il mondo esterno,  in cui tutto è inevitabilmente logoro e sfruttato.
      
Campobasso, 10 ottobre 2012  
Maria Concetta Barone

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