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E qui passo a considerare la sua poesia in prosa nella quale egli manifesta in modo più disteso il suo sentimento d’amore e d’ammirazione per la bellezza che si manifesta nella natura e negli uomini.
Su questo tema, che abbraccia l’intero arco della sua visione poetica, mi limito a raccogliere, dai vari testi pubblicati, soltanto pochi brani esemplari, colti con molta parsimonia.
Nel romanzo “Il prezzo dell’amore”, il più ricco di abbandoni lirici, molti sono gli spunti di riflessione.
Essi vanno dall’armonia e dalla semplicità e la bellezza del paesaggio agreste come (pag. 13):
“Le traglie si inseguivano su per la Femmina Morta e di tanto in tanto giungevano le voci dei garzoni addetti al tiro delle bestie che incitavano codeste con secchi suoni gutturali a non abbassare il capo tra i ciuffi di erba che crescevano qua e là tra le stoppie. Anche le voci stonate delle mietitrici, da un campo lontano, si mescevano allo scampanellio delle mule e dei bovi da tiro ansimanti su per l’erta. Il paesaggio era diventato sotto il sole infocato una gran massa d’oro che riverberava di splendore fin dove l’occhio si perdeva nel bacio dei cupi monti appenninici col cielo di Puglia e le rare chiazze verdi di granturco sembravano pietre incastonate nell’oro delle stoppie. “
al sentimento dell’infinito come (a pag. 34):
“Di tanto in tanto si udiva l’abbaiare dei cani che lanciavano richiami nella notte in cui le piccole stelle non già segnavano la fine di un nuovo spazio, ma facevano intuire la continuità verso altezze indecifrabili;
dal risveglio mattutino di Sant’Elia (37), (a quell’ora in giro per il paese non c’è molto da vedere, ma il poeta, da mille indizi, sente la presenza di un mondo pieno di creature ansiose che si destano):
“Il paese appariva ancora sonnolento. Si udiva lo scalpitio delle bestie nelle stalle nell’udire il rumore delle prime macchine e le voci degli ambulanti. Si percepivano suoni lievi provenire dall’agglomerato di case, lievi battiti di zoccoli, brevi sferragliate delle bestie, cigolii di porte che s’aprivano al primo far del giorno, chicchirichì di galletti baldanzosi, il belare degli agnelli e l’eco prodotta dalla battuta degli scarponi chiodati sul selciato, una meravigliosa sinfonia che preludeva un più certo e immediato risveglio”.
alla bellezza della donna, sana e acerba. Dice (pag. 59) parlando del personaggio di nome Carmelina:
“Era bella, bionda dagli occhi neri. Le labbra umide sembravano petali di rosa che si schiudevano al bacio della primavera. I seni, né poveri né superflui, parevano due deliziosi frutti di spadone acerbo che erano lì lì per maturare, che a momenti avrebbero fatto la loro schioppata fuori dalla camicetta colorata. Le gote sembravano pallide pesche acerbe, vellutate, ma dure al tatto, come spaccarelle non ancora mature. “Muoio o son desto” avrebbe detto lo studentello di città! Ma Antonio rimase solo incantato”.
I brani poetici sparsi in questo libro sono tanti, basta cercarli.
 
Meno ricco di brani simili è il romanzo “Il segreto di Sara”, ma ciò che c’è non è meno poetico degli altri. Qui noto con quanta emozione l’autore ci parla del distacco di Sara dai suoi soccorritori al momento di partire per Roma (pag, 53),
“Portava forte nel cuore l’immagine di zio Angelo, di zia Carmelina, di Rosario, del paesaggio verde e fiorito, delle albe chiare e dei tramonti a tinte forti sui monti lontani; delle dolci note degli uccelli canterini e soavi come non aveva mai sentito; l’odore fresco delle nevi d’inverno, il profumo delle zeppole e dei calzoni che zia Carmelina friggeva a san Giuseppe, la fragranza dei frutti di bosco e le saporite frittate d’asparagi che a primavera non erano mai mancate, il profumo del pane benedetto, le voci indistinte delle masserie lontane, il muggito dei bovi, il raglio degli asini, il belare delle greggi, il canto dei galli, tutto questo patrimonio di affetto e folklore restava radicato, per sempre, nei cuori di Sara e di Samuele e mai in loro ne sarebbe svanito il ricordo”.
Nel racconto Zazà, magnifico è il ritratto di questa donna.
“Un bocciolo di rosa spuntava dalla sua boccuccia ad ogni sorriso. Portava in giro felice i suoi sedici anni giù per le strette viuzze che si diramano a valle della via Pennini e si lasciava seguire da frotte di ragazzi su per Santa Maria Maggiore, distribuendo, coi suoi tizzoni ardenti, promesse d’amore che poi finivano al voltare del primo portone”.
E, parlando di Lisa, nel racconto omonimo dice:
“I nostri occhi non potevano fare a meno d’incontrarsi, quasi s’incastonavano gli uni negli altri come due meravigliosi topazi che, se non fosse stato per il gentile saluto che rompeva l’idillio, sarebbero rimasti impigliati senza più distaccarsene”.
Mi fermo qui al solo fine di mostrare quanto sia spontaneo e naturale il suo modo di poetare.
                              *          *          *
La sua è una poetica tutta protesa a manifestare l’ammirazione che sente per la bellezza della natura e dell’uomo unita alle gioie che l’amore e il lavoro ci danno e a deprecare gli affanni generati dagli appetiti materiali sempre più estesi e sempre più irraggiungibili che hanno portato l’uomo alla rottura del suo equilibrio naturale e alla perdita della chiave della felicità.
E’ la crisi dell’uomo moderno, assetato sempre più di ricchezza e di novità, che si infischia del senso del limite, che gli sta a cuore. E’ il costatare che i tratti nativi della piccolezza umana, della sua umiltà e della necessaria solidarietà con il proprio simile, si sono sopiti e che al loro posto è sorta una catena ininterrotta di motivazioni contrastanti e quindi cagionevoli di dolori che, come in un labirinto senza uscita, rinchiudono l’intera società umana e avviluppano la mente di tutti e la portano a smarrire la strada della verità e della felicità. E’ questo   che lo turba.
Per questo l’uomo non sa guardare oltre l’orizzonte visivo, non sa affidarsi al periscopio dell’anima, perché la sua stessa coscienza si è deformata, per cui si perde in una ricerca senza fine in quanto le verità che riesce a raggiungere in un mondo afferrato dalle sue ansie, lo portano lontano dal suo vero umanesimo e lo lasciano continuamente inappagato, insoddisfatto.
 La poetica, quindi, è tutta incentrata sulla riflessione sull’uomo, sulla società e sul suo ambiente, tesa al recupero dei valori perduti, sostenuta dalla certezza della bellezza della vita e dell’armonia del creato. Questi sono i punti fermi.
Occorre perciò ritrovare la chiave perduta della casa dell’uomo, la sua giusta sede, la sua fede, il suo giusto rapporto con la natura e con l’uomo. Occorre rifondare il regno dell’uomo. Riappropriarsi delle forze che Dio e la natura ci hanno dato per vivere al meglio la nostra vita. Occorre più impegno, più solidarietà, più equilibrio tra gli uomini, più armonia tra natura e civiltà, più umiltà.
Attraverso la ricerca del passato e il confronto con il presente il poeta tratteggia le discrepanze che hanno prodotto l’ansia e le brutture della vita moderna.
La sua fede nasce dalla costatazione della bontà nativa degli uomini, dalla certezza della presenza dei suoi tratti distintivi come l’umiltà, la solidarietà, l’amore. Nasce dalla convinzione che quella bontà in ognuno di noi è semplicemente sopita e che occorre per tutti soltanto ridestarla, rimetterla in auge. Occorre rinsavire.
Egli, archeologo dell’animo umano, mette a nudo i mali del mondo per additare a tutti il bisogno di rifondare una casa in cui l’uomo possa vivere al meglio i suoi brevi anni di vita. E’ il sogno di tutti i poeti del mondo, lo stesso sogno di Dante che, pur di rinsavire, non esita neanche a percorrere gli itinerari delle sedi infernali.
E’ una poetica non dissimile da quella che cogliamo nella sua produzione narrativa. In fondo la famiglia Tracanna, Sara e suo figlio Daniele, Zazà, Gramegna, Lisa, il vate di Monacilione, sono tutti personaggi vivi, operosi, amanti della vita, che si affannano a vivere in solidarietà con il prossimo e in piena umiltà e che, là dove si avvedono di sbagliare strada, si affannano a ritrovare i sentieri perduti. Non sono che gli esempi di una umanità nata per essere felice non per soffrire o soccombere. E “Maria la Rusciulella” non è che la voce della sapienza popolare, ovvero, della coscienza.
Per questo egli si sente legato a ognuno dei suoi personaggi, anzi, è egli stesso un personaggio come loro che soffre e che prega perché l’uomo del nostro tempo ritrovi l’armonia e la pace perduta.
 La sua è, per dirla in breve, una poetica che pone al centro del suo sistema l’uomo semplice, buono, serio, operoso, virtuoso, generoso, solidale con gli altri, fiducioso, che sa contentarsi di ciò che ha, amante della concordia e della pace, in operosa armonia con se stesso, con il mondo e con Dio.
 

Filippo Leo D’Ugo
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